Il coinvolgimento americano in Afghanistan potrebbe non essere finito e in quella che definiremmo una missione antiterrorismo quantomeno anomala, la responsabilità delle operazioni passerebbe alla Marina, una decisione piuttosto bizzarra se si pensa alla terra occupata dai Talebani come un paese senza sbocchi sul mare. L’ipotesi, avanzata dalla rivista Politico, non è da scartare: dal punto di vista militare la motivazione di una tale decisione va ricercata nella mancanza di aeroporti sotto il controllo USA in un’area vasta quasi tutta l’Europa Occidentale: l'Afghanistan confina infatti con Iran, Pakistan, Cina, Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan, sei nazioni che non ospitano basi statunitensi e nessuna delle quali può essere definita una “stretta alleata” della Casa Bianca.
Escludendo a priori l’Iran, la Cina e Pakistan, quest'ultimo troppo dipendente da Pechino per aprire le porte a Washington, e ritenendo come improbabile il coinvolgimento del Kazakistan, troppo legato alla Russia, e del Turkmenistan, più propenso all'isolamento che alle alleanze, resterebbero il gioco il Tagikistan e l'Uzbekistan, due opzioni che richiedono tempo ma sulle quali starebbe lavorando il Pentagono. Ci sarebbe, infine, anche il Kirghizistan, che pur non essendo un paese confinante è comunque sufficientemente vicino all’Afghanistan per sferrare operazioni aeree rapide e coordinate. Nei primi anni Duemila, in piena guerra al terrorismo jihadista, le forze statunitensi avevano già stazionato in Asia centrale, utilizzando le basi di Karshi-Khanabad in Uzbekistan, Bishkek-Manas in Kirghizistan e Ayni e Kulob in Tagikistan. Ora però lo scenario è gli equilibri internazionali sono cambiati e per Washington nulla è più così scontato.
Come nel caso del Tagikistan, il Kirghizistan è fortemente dipendente dalla Cina e dalla Russia. Le rimesse dei lavoratori migrati in Russia rappresentano circa un terzo del PIL e il debito nei confronti della Cina è superiore a un quarto del debito complessivo. Considerato per molto tempo come il principale alleato degli Stati Uniti in Asia centrale, il Kirghizistan fa comunque parte della CSTO, è membro dell'Unione economica eurasiatica ed è sede di una base militare russa presso l’aeroporto di Kant [rfefl]. La permanenza americana sulla base di Manas è durata dal 2001 al 2014, la più longeva della regione, ma oggi la situazione è completamente cambiata. La difficoltà nel mantenere relazioni a lungo termine con gli Stati Uniti è imputabile soprattutto alle guerre di potere che coinvolgono l’élite politica del paese, uno scenario di instabilità che, in caso di rischieramento, renderebbe difficile garantire un livello adeguato di sicurezza per le truppe USA.
Rispetto ai vicini, l'Uzbekistan è la nazione che meno dipende da Russia e Cina ed è quindi la prima candidata ad ospitare gli aerei USAF [AirForceMag]. Non fa parte della CSTO, non ha basi militari straniere dal 2016, da quando Shavkat Mirziyoyev è salito al potere, e non cura con particolare attenzione le relazioni con la Russia. La base aerea di Karshi-Khanabad è stata sede USAF dal 2001 al 2005, fin quando Washington non ha condannato il cosiddetto massacro di Andijan, un atto di repressione ordinato dal presidente Islom Karimov per soffocare le proteste di piazza che ha portato alla morte di centinaia di manifestanti uzbeki. Inoltre, dal 2013 al 2016 la capitale Tashkent è stata sede dell'Ufficiale di collegamento della NATO in Asia centrale. Mirziyoyev ha anche allacciato nuovi e più saldi legami militari con gli Stati Uniti: nel 2018 è stato firmato il primo patto di cooperazione militare con gli USA, il numero di esercitazioni congiunte è aumentato e gli ufficiali uzbeki hanno ora la possibilità svolgere periodi di addestramento nei paesi della NATO.
L’Uzbekistan ha anche assunto un ruolo di rilievo nella questione afghana, ospitando la conferenza di Tashkent e partecipando ai colloqui trilaterali con Washington e Kabul. Ciò nonostante, la questione relativa allo stazionamento di truppe ed aerei da guerra statunitensi in Uzbekistan incontrerebbe l’inevitabile resistenza di Mosca e Pechino. Il Cremlino è contrario a molte iniziative di Tashkent ed è convinto che l’obiettivo finale Washington è indebolire i legami tra Mosca e i paesi dell'Asia centrale. Non è neanche improbabile una forte opposizione della società uzbeka, soprattutto vista la reazione alle voci sull'apertura di una base militare russa, un risposta che potrebbe essere ancora più marcata nel caso di una base americana.
Il comando delle operazioni in Afghanistan alla US Navy è quindi una delle ipotesi più che plausibile, soprattutto nel breve periodo. Preoccupata per il ritorno sulla scena dell'ISIS e per una non meno probabile rinascita di al Qaeda, l'amministrazione Biden continua ad utilizzare i droni per lanciare attacchi aerei isolati in Afghanistan, questo senza avere ancora un quadro chiaro su come raccogliere informazioni dettagliate sugli obiettivi o come condurre attacchi massicci da così grande distanze. È da anni che per colpire gli obiettivi in Afghanistan i piloti USAF decollano dalle basi aeree di Al Udeid in Qatar e Al Dhafra negli Emirati Arabi Uniti: per arrivare sul target devono volare lungo rotte che evitano lo spazio aereo iraniano, passando per il Golfo di Oman, il Mare Arabico e il Pakistan, missioni che richiedono ore di permanenza in quota e rifornimenti in volo. Ci sono poi operazioni di supporto aereo ravvicinato alle Forze Speciali che entrano in territorio afghano, missioni che visti i tempi sarebbe difficile coordinare dalle basi del Qatar e del Kuwait. La soluzione migliore rimane quindi lo stazionamento di portaerei nel Mare Arabico, con riflessi positivi sul supporto alle forze di terra, sui tempi di stazionamento dei droni impiegati nelle missioni ISR (Intelligence, Surveillance, Reconnaillance) e sulle missioni di attacco.
Questa scelta implicherebbe il ritiro di risorse dal Pacifico, un’area che l'amministrazione Biden ritiene strategica per Washington e che già paga lo scotto della crisi afghana. La portaerei USS Ronald Reagan di stanza in Giappone è stata, infatti, impiegata durante l'operazione di evacuazione da Kabul e tutt’ora staziona nel Mare Arabico, in affiancamento alla nave da sbarco USS Iwo Jima [USNI]. A Washington, la decisione ha sollevato le proteste dei così detti “falchi della Cina”, poiché, dopo decenni di presenza in Giappone, è la prima volta che gli Stati Uniti lasciano sguarnito il Pacifico Occidentale.
L'assenza è stata notata soprattutto a giugno, in occasione dell’esercitazione navale che la Russia ha giocato nel Pacifico, con unità che si sono spinte fino a 34 nm dalle coste delle Hawaii, una mossa che ha portato gli Stati Uniti a far decollare gli F-22 da Pearl Harbor per intercettare la coppia di Tu-142MZ Bear-F che partecipavano alla manovra.
In quei giorni, la USS Reagan si trovava nell'Oceano Indiano, pronta a rilevare la USS Dwight D. Eisenhower che, dopo 800 giorni di missione, 300 più di quelli programmati, era pronta a rientrare in Virginia, mentre la USS Carl Vinson stava ancora effettuando le esercitazioni di pre-dispiegamento a largo delle Hawaii, impegnata per la prima volta con gli F-35 imbarcati. La probabilità che il gruppo da battaglia USS Ronald Reagan rimanga nel Mare Arabico, almeno fino a quando Washington non assicurerà una base di supporto in Asia centrale, è rafforzata dall’arrivo nel Pacifico della nuova portaerei britannica HMS Queen Elizabeth e dal fatto che dal prossimo autunno gli F-35 STOL dovrebbero volare anche della portaelicotteri giapponese Izumo. Inoltre, dal 2022 dovrebbe essere schierata anche la USS Gerald R. Ford, dove è tutto da stabilire. (IT Log Defence)
Foto U.S. Navy photo/Alexander C. Kubitza, Air Force Magazine, USNI